Arte e Paesaggio. AL TEMPO D'ARMONIA di Beniamino Vizzini per la GIORNATA NAZIONALE DEL PAESAGGIO su Tracce Cahiers d'Art

Arte e Paesaggio
Tracce Cahiers d'Art per la Prima Edizione in Italia
della Giornata Nazionale del Paesaggio

Per la Prima Giornata Nazionale del Paesaggio del 14 Marzo 2017, TRACCE CAHIERS D'ART pubblica il testo di Beniamino Vizzini, dal titolo "Al Tempo d'Armonia. Estetica ed Etica del Bello Naturale" 
Agrigento, Valle dei Templi, Tempio della Concordia
È stato premiato il progetto AGRI GENTIUM: Landscape Regeneration


Nella locandina: Siena, Pinacoteca Nazionale, IL Sassetta "Città in riva al mare", 1423-'25

“IL Paesaggio non ha proprietari,
e il viandante apprezza la relativa libertà”, H. D. Thoreau

IL 14 marzo 2017 si tiene la Prima Edizione della Giornata Nazionale del Paesaggio, presentata presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, con oltre 170 iniziative in tutta Italia e la cerimonia per la consegna del premio Paesaggio italiano nel Salone Spadolini del Collegio Romano. Un momento istituzionale importante per il riconoscimento del valore che può assumere, nell’ambito delle tematiche di impegno civile sui problemi dell’ambiente e del territorio, il tema dell’estetica del Paesaggio o, della sua bellezza.
Tema che ha acquistato rilevanza e centralità nella riflessione della nostra Rivista con l’editoriale di apertura del venticinquesimo Cahier di TRACCE CAHIERS D'ART Autunno - Inverno 2016 scritto dal direttore Beniamino Vizzini, dal titolo “Al tempo d’armonia. Estetica ed etica del bello naturale” che qui di seguito riportiamo, a conferma della volontà di continuare a svolgerne tutte le implicazioni legate soprattutto al rapporto fra territorio, ambiente e paesaggio, nella proposizione di un binomio, criticamente inteso e sospeso tra bello artistico e bello naturale, sintetizzato qui con la sigla convenzionale di Arte e Paesaggio.

Al Tempo d'Armonia
Estetica ed Etica del Bello Naturale

direttore di Tracce Cahiers d'Art

Nei primi anni Settanta, a sorpresa, nella Ästhetische Theorie, Adorno rivalutava la categoria del bello naturale, di cui la filosofia moderna e la teoria dell’arte, già dai tempi dell’idealismo post-kantiano, avevano sancito l’irrilevanza per l’estetica. Il bello naturale, secondo Adorno, merita di venir ripreso perché in esso è ravvisabile una traccia del non identico, di ciò che riesce a sfuggire alla presa possessiva del concetto che tutto a sé mira a ricondurre, finendo per provocare la volatilizzazione delle cose. Ma la natura, di cui Adorno parla, non è la natura selvaggia né la natura addomesticata da mani umane. Il bello naturale è qualcosa che, rinviando ad uno spazio immaginativo distante dall’evidenza della natura empirica, deve essere inteso come cifra di un’utopia o allegoria della natura quale potrebbe porsi in essere entro un mondo diverso, altro, nella prospettiva della redenzione. 

Compito di chi si pone di fronte alla natura sarebbe di coglierne la potenzialità d’essere espressione dell’inesprimibile. Chi è davvero sensibile al bello naturale somiglia a colui che – dicono i versi di Baudelaire – “…intende la segreta lingua dei fiori, e delle cose mute”. Al pari di colui che ammira l’enigmatica bellezza dell’arte, chi ama il bello naturale ascolta in esso, esattamente come in un’opera d’arte o, nella musica, il senso arcano d’una lingua senza parole, l’eco di nessuna voce. Perciò, l’arte non è tanto imitazione della natura quanto, imitazione del bello naturale e sua allegoresi. Ecco perché l’arte soprattutto moderna ha dovuto lottare contro l’inerzia di un linguaggio che si crede “naturale“ mentre è solo asservito alla routine. L’arte si rivela soltanto al di fuori di ogni obbligo a rendersi comunicabile e facile da capire. 


Le avanguardie storiche, le cui pulsioni furono impregnate di messianesimo sociale, hanno avuto il merito di far cadere l’accento sulla necessità di disarticolare il linguaggio a tal punto che la poiesi artistica del Novecento par essere divenuta né più né meno che “poesia come linguaggio di uno stato di crisi”, per citare la frase di A. C. Bradley. 

Eclissi resistibile del bello

All’arte dell’era moderna sono precluse ogni festa, ogni positiva consolazione; essa deve coscientemente, se non vuole cadere nella trappola della comunicazione codificata e ridursi a rifugio avallando la banalità del reale, vietarsele. Eppure – o meglio, proprio per questo – l’arte non si riduce a mera negatività, apologia della crisi; malgrado tutto vi permane una traccia di bellezza, si intravedono strade che a quella che viene intesa come esperienza comune risultano invisibili. 

L’arte moderna, che intrattiene un rapporto sempre più tormentato e infelice con la bellezza e non evita, addirittura, negli ultimi orientamenti delle arti visive, di nutrire una sorta di avversione per la bellezza stessa e, perfino, per se medesima, ha mantenuto a lungo in sé una tenace tensione – e questa sta ora incrinandosi – verso la verità. Ciò che una volta venne chiamato il piacere dell’arte si perverte ormai in un’esperienza di piacere misto a dolore in cui sembra consistere il nuovo senso poetico del bello. 

Charles Baudelaire definiva il bello come “qualcosa d’ardente e triste”, e sosteneva che fra i caratteri più interessanti della bellezza vi fossero la malinconia e l’infelicità, e che la gioia ne costituisse uno degli ornamenti più volgari: “non concepisco affatto (il mio cervello è forse uno specchio stregato?) un tipo di bellezza in cui non ci sia infelicità”. 

L’arte è protesta, denuncia d’una società devastata dal dolore e dalla disumanizzazione che, tuttavia, s’introduce nell’arte, offuscata, riflessa come in uno specchio stregato. Nella modernità, l’opera dell’arte non si propone più quale oggetto di contemplazione, e meno che mai nell’attualità della coscienza tardomoderna, bensì quale materia al più di riflessione irrequieta, critica e avversa a qualsiasi genere di pace contemplativa, così come le manifestazioni stesse della natura non sono diventate altro che materiale fruibile per interessi niente affatto estetici. 

Anche il bello naturale, come l’arte, in quanto ha acquistato valore nell’ambito d’una società dominata dal calcolo del profitto, ha assunto il valore di bene culturale, configurandosi in “paesaggio” o, altrimenti classificato col termine di “bene paesaggistico”, vale a dire in risorsa disponibile non certo per essere contemplata bensì sfruttata adeguatamente ai fini di investimento economico, per incrementare il prodotto interno lordo di un Paese o, per essere inserita nei flussi di mobilità di massa prodotti dall’industria del turismo. 

Orbene, in alternativa al pragmatismo efficientista ed economicistico insito nelle tematiche centrate sul paesaggio e contro l’anti-contemplatività dalla quale è caratterizzata l’odierna civiltà del benessere, si tratta di recuperare margini di ulteriore valorizzazione di quel piacere della natura interpretabile come “piacere nella contemplazione della natura”, secondo la felice formula di Rosario Assunto inscritta nella sua magistrale opera intitolata “Il paesaggio e l’estetica” del 1973. Nel paesaggio – giusta l’osservazione di Rosario Assunto – il tempo si risolve tutto nello spazio della natura, il paesaggio è “il luogo in cui il tempo spazializza se stesso” offrendosi, per così dire, nell’atemporalità di un’immagine che prende forma dall’opera plasmatrice dell’uomo, dal suo lavoro congiunto alla plasticità della sua azione creativa. 

Agricoltura, giardinaggio, idraulica, urbanistica, ingegneria, zootecnica, stanno in rapporto di reciproco scambio con le poetiche artistiche e letterarie del paesaggio se alla base sussiste una medesima idea estetica in qualità di modello regolativo dell’operare umano. Ma se questo criterio regolativo nella prassi viene sostituito dalla legge del profitto allora il senso della bellezza scade a un infimo grado di piacevolezza superficiale soppiantato dall’assolutizzazione di un solo criterio dominante, quello dell’utilità. 

L'archetipo e il paesaggio

Nel Timeo sta scritto che il Demiurgo fa bello tutto ciò che fa perché lo fa sul modello di ciò che sempre è e non ha generazione. La poetica del paesaggio, essendosi formata nella pittura di ambito neoplatonico rinascimentale, avverte come ogni singolo paesaggio “prodotto” dall’intelletto umano realizzi in sé il paesaggio archetipale o l’idea della natura pensata dall’intelletto matematico dell’Artefice Divino. Nell’artificio umano si riproduce lo stesso disegno compositivo che agisce nella potenza generativa della Natura naturante. Dipingere un paesaggio significava pensarlo nella sua essenza in quanto bellezza intuita more geometrico, nel senso di limite, misura, simmetria e armonia. 

Piero della Francesca pensava il paesaggio come la bellezza essenziale prospetticamente figurabile in ogni paesaggio particolare. Marsilio Ficino, nella sua Theologia Platonica, consegnava il seguente apoftegma: “Quid artificium? Mens artificis in materia separata. Quid naturae opus? Naturae mens in coniuncta materia”. Nel platonismo umanistico di Niccolò Cusano si ritrova la fondazione filosofica di un’idea di bellezza nella figura del cerchio come immagine ciclica dell’eternità, perfettamente correlativa alla rotondità spaziale dell’architettura palladiana e alla circolarità concentrica di strutture architettoniche e paesaggistiche corrispondenti alla configurazione oro-topografica del paesaggio italiano rimasto, pressoché, integro fin quasi alla modernizzazione industriale del secondo dopoguerra. 

Prima, erano colture fitte e ordinate che esibivano in immagine il giro delle stagioni le quali configuravano l’anno come un circolo in cui la successione ere durata e la durata successione, suggerendo l’idea del tempo come immagine mobile dell’eternità. L’architettura a pianta centrale si incastonava in questo tipo di paesaggio e un nesso strettissimo correva tra l’architettura religiosa rinascimentale e la fede nella corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, nella struttura armonica dell’universo, nell’intelligibilità di Dio per mezzo di simboli matematici del centro, della circonferenza e della sfera che nella chiesa rinascimentale appunto trovò la propria espressione visuale. 

Fra l’archetipo e la realtà si pervenne a contrarre un accordo mirabile e miracoloso; un accordo tra la perfezione raggiungibile dall’arte umana, a immagine e somiglianza dell’arte divina, e la perfezione della natura creata dall’Artefice Divino. 

Il paesaggio rurale che, nella sua fusione di coltivazione e architettura, poteva esser considerato l’arte in cui si esprimeva la misura di fondo del grado di radicamento – nel corso delle generazioni successive – di un popolo sulla sua terra, il modo di organizzarla e di darle una forma, al giorno d’oggi, nell’epoca dello sradicamento e della de-territorializzazione, è un paesaggio perduto la cui aura ricompare sotto altre spoglie nelle ultime riserve di piacere contemplativo che sono rimaste: le riserve protette dei parchi e dei giardini. 

La filosofia del giardino

Epicuro ha insegnato che nell’essere vivente non c’è nulla di più diretto e spontaneo della sensazione anzi, ha scoperto che lo stato del massimo piacere possibile, invariabile e costante, si ottiene soltanto nella sensazione pura ovverosia, purificata da ogni genere di turbamento e di paura. La vita felice, per Epicuro, è semplicemente sentirsi vivere. Ciò che turba la nostra vita impedisce anche il nostro piacere, proprio in quanto il piacere non è cosa diversa dalla vita: non c’è da scegliere tra questo e altri beni. I piaceri non sono beni accanto ad altri, per Epicuro il piacere è la nostra stessa vita nel senso che la vita – rimosso il dolore – non è altro se non piacere e il piacere assenza d’ogni turbamento. Così, per ottenere il piacere non è necessario cercarlo; occorre invece rimuovere dalla vita ciò che non concorre al suo fine, poiché il suo fine è il piacere ovvero, la vita stessa nella soddisfazione essenziale dei suoi bisogni naturali e necessari. Bisogni di nutrimento, d’amore e di bellezza. 

Nell’opera intitolata Del fine Epicuro dice: “Almeno per me non so pensare il bene se ne tolgo i piaceri del gusto, quelli dell’amore, quelli dell’udito e i soavi moti che tramite la vista ricevo dalle forme”. 

Non si devono separare i piaceri della vita dalla naturale necessità di soddisfarne i bisogni, la pace spirituale dalla serenità dei sensi non perturbati, l’anima libera dal godimento onesto e lieto del corpo. La ricomposizione in unità trascendente la duplice natura dell’uomo rappresenta il solo vero fine da perseguire nel corso d’una saggia esistenza. È ragionevole affidarsi ai propri bisogni per ritrovarvi la fonte e la regola dei propri piaceri, anche di quelli spirituali. 

Epicuro, che nella vita aveva ridotto al minimo il bisogno di nutrirsi, cita il nutrimento come il primo dei tre piaceri fondamentali. Il secondo è l’amore, il cui vero scopo non è l’unione di due corpi ma il loro piacere erotico ed è questo piacere che rende desiderabile la loro unione quale fiducia reciproca a livello di sensazione condivisa. “Vieni nel mio letto – sussurra Circe ad Ulisse nell’Odissea – e impariamo la fiducia”. Infine, i piaceri dell’udito e i soavi moti trasmessi dalle belle forme non ci riportano, forse, alle seduzioni della musica e ai godimenti dell’arte, da un lato, e del bello naturale o, ai piaceri nella contemplazione della natura, dall’altro? ma il piacere maggiore, per Epicuro, è l’amicizia o la compagnia fondata “sulla comunità dei più grandi piaceri” che hanno la loro origine nell’assenza di pregiudizi e di timori, e che presuppongono la saggezza. La compagnia degli amici raccolta nello spazio nascosto del giardino corona, dunque, l’ideale d’una vita felice sulla terra e il giardino epicureo diviene metafora, e simbolo, del bene associato al piacere nella contemplazione del bello e del vero. 

Per quanto caratterizzato dal suo rimanere, pur sempre, luogo fisico del bello naturale, il giardino nel mondo cristiano passa, costituendosi in hortus conclusus, a simbolo del paradiso terrestre dove il piacere contemplativo assurge allo status di estasi, secondo il modello teologico della Grazia racchiuso all’interno dei chiostri dei monasteri medievali. Nell’arte pittorico-religiosa del tardo Trecento e del primo Quattrocento, l’hortus conclusus compare nella presenza d’uno spazio sacro; spazio di trasfigurazione, di rapimento sospeso, di infinitizzazione del finito, di liberazione dalla morte, dal male e dal peccato; festa d’una natura sempre in fiore nel paesaggio in cui l’oro è la promessa di un nuovo cielo e di una nuova terra anzi, unità della terra e del cielo nell’Eden recuperato dalla benedizione divina di cui è mediatrice la Madonna. Il giardino dell’Eden interpretato dai traduttori latini della Bibbia veniva chiamato Paradisus voluptatis

All’idealità estetica della grazia redentrice, come predicato del bello naturale, trascorrendo dal modello teologico ad un modello sensistico e naturalistico, si ricollega il nascere della cultura dell’amor cortese che ha nel giardino il suo locus amoenus privilegiato qual si riscontra, per esempio, sia nel giardino magico del rito detto Gioia della Corte descritto nel romanzo “Erec et Enide” di Chretien de Troyes sia, soprattutto, nel Roman de la Rose che avrebbe imposto “prato” e “verziere” come scenari obbligati degli incontri erotici. Se il “verziere” poteva essere luogo scelto d’eros e di adulterio e,quindi, di peccato, esso restava nondimeno metafora edenica: non sorprende, pertanto, che se ne sia impadronita la stessa letteratura mistica per farne simbolo delle gioie spirituali, come si vede in Caterina da Siena. 

Sarà proprio nell’ambito di monasteri e di abbazie che, pur tuttavia, la storia d’occidente assisterà ad un ritorno delle funzioni pratiche, costitutive di una economia agricola finalizzata all’autosufficienza, tipiche del giardino antico. Il lavoro della terra e la frequentazione delle opere naturalistiche degli antichi consentirono la ripresa di un’attività produttiva rivolta, non tanto alla ricerca del profitto ed all’accumulazione di surplus, quanto alla sussistenza e al mantenimento della comunità dei monaci. 

In questi spazi claustrali, segreti, appartati dal mondo, si coltivavano piante aromatiche e salutari – in tal senso, il giardino si rivelava fondamentale nella cura corporis – insieme a legumi, ortaggi e alberi da frutto per la mensa comune. La regola di San Benedetto prescrive che all’interno del monastero si trovino sempre riserve d’acqua e un hortus. Nel celebre piano dell’Abbazia Carolingia di San Gallo l’hortus, che occupava un’area di circa 2200 metri quadrati, va considerato in relazione imprescindibile con il frutteto, con il pollaio, importante per il deposito di letame, e con l’infermeria nella quale si usavano le essenze salutari coltivate nel giardino. 

Rinasce, dunque, ciò che con il termine latino hortus gli antichi romani indicavano, di solito, il piccolo appezzamento di terreno dove venivano coltivati gli ortaggi destinati a soddisfare le necessità alimentari della famiglia: hortus poteva significare anche quello che noi oggi chiamiamo podere, con un più o meno esteso impianto di vigne e/o di frutteti, avente un valore di destinazione commerciale, oltre alla sua funzione originaria di assicurare il nutrimento e l’autosussistenza. In seguito, il giardino si trasformò nel parco che contornava la villa del signore, per abbellirla e arricchirla con siepi, boschetti, statue, bacini, fontane e quant’altro potesse rendere liete le ore riservate ai piaceri dell’ozio e dei convegni d’amore. 

Il giardino riassume in sé e nella propria forma, e nella propria storia, i tre piaceri fondamentali della filosofia di Epicuro: il nutrimento, l’eros e la contemplazione del bello. Il giardino proprio grazie a questo suo essere luogo, per eccellenza, di rivelazione del bello naturale, è lo spazio perfetto del piacere: come scrive Rosario Assunto esso “è spazio assolutamente altro dagli spazi che la nostra quotidianità consuma consumandosi in essi”. 

Luogo dell’anima, in cui si consuma, fino all’essenza, la dilettosa ebbrezza che si prova contemplando la natura, il giardino porge ai nostri occhi l’immagine di un tempo sospeso, fuori dalla successione meccanica e inesorabile degli istanti, di un tempo stregato dalla magia immemoriale del sogno di un’età dell’oro, in cui la vita scorre semplice e serena, ritmata dalla scansione erotica delle stagioni e dei giorni, entro i confini sicuri della soddisfazione di bisogni naturali e necessari. 

Al tempo d'armonia

Un dipinto di Paul Signac, sempre visitabile nel salone pubblico del Municipio di Montreuil, intitolato Au temps d’harmonie del 1893, mostra chiaramente, quasi didascalicamente, lo spazializzarsi nel paesaggio del tempo mitico dell’età dell’oro che verrebbe, piuttosto, a confermarsi più appropriatamente come tempo dell’utopia se è vero che è lo stesso pittore ad indicarcelo nel sottotitolo della sua opera avvertendo che esso non è nel passato, bensì nell’avvenire. 

Dall’incantata evocazione di Signac ascende l’infigurarsi d’una visione che irradia sensazioni di pace, di calma, di tranquillità tutt’intorno, ove sparsi brillano i colori caldi della luce mediterranea con cui risplende, e s’avvolge, la scena d’una società paradisiaca poiché, in essa, nessun essere umano vi è rappresentato che non assapori il piacere d’una vita giusta e felice, in armonia con l’espansione della bellezza circostante della natura. Qui, il bello naturale si lascia, davvero, immaginalmente visualizzare, come nella prospettiva teoretica di Adorno, in quanto codice cifrato di ciò che ancora non è ma che, un giorno, potrebbe pur essere. 

Adorno: “L’immagine di ciò che c’è di più antico nella natura è, vista dall’altra faccia, il codice cifrato di ciò che ancora non c’è, del possibile”.

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