ECFRASI. La Tempesta di Giorgione alle Gallerie dell'Accademia di Venezia. Di Beniamino Vizzini

La Tempesta di Giorgione
alle Gallerie dell'Accademia di Venezia

di Beniamino Vizzini

GIORGIO o ZORZI DA CASTELFRANCO, detto GIORGIONE
“La tempesta”, Gallerie dell’Accademia di Venezia.
Su concessione del Ministero 
dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
L a Tempesta di Giorgione è un piccolo quadro (cm 82 x 73), un dipinto a olio su tela, databile intorno al 1502 – 1503, conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia ed ivi esposto al pubblico nella mostra, curata da Guido Beltramini, Davide Gasparotto, Giulio Manieri Elia, “Aldo Manuzio. Il rinascimento di Venezia”. La mostra aperta il 19 marzo è stata prorogata fino al 31 luglio 2016.

Si tratta di un piccolo quadro che, tuttavia, ipnotizza lo sguardo di chi si soffermi ad osservarlo. Al suo interno vediamo l’immagine dell’eternità di un istante, racchiuso nella rapidissima luce di un lampo, ove tutto risalta con un tale spiccato nitore che non potrebbe mai esistere nella sfera fenomenica del reale, eppur ci sembra vero. Ci troviamo di fronte ad un paesaggio con figure immerso, per così dire, in un mirabile impasto cromatico, ricco e sfumato, in cui è possibile piuttosto avvertire la compresenza, in una sorta d’eterea fusione atmosferica, di elementi naturali e architettonici con il soggetto umano, sebbene quest’ultimo appaia, comunque, come isolato ed estraniato dal resto della composizione.

Sono tre figure astanti in primo piano: una giovane donna seminuda, seduta con a fianco un bambino anch’esso ignudo e, a destra, un giovane uomo in piedi elegantemente abbigliato con una giubba di color rosso vivace e calze di diverso colore, appoggiato ad una lunga asta.

La donna rimane adagiata sopra le candide pieghe delle sue stesse vesti deposte sull’erba, una mano dietro la spalla dell’infante proteso al suo seno e posto al di là della sua gamba sinistra, flessa verso l’alto, che in parte lo nasconde, e l’altra sul ginocchio con l’indice lievemente ripiegato, mentre la gamba destra riposa, incurvandosi verso il basso, appena schermata dall’arbusto vivo di un roseto accanto ai rami secchi di un secondo arbusto morto.

Intanto, statico e distaccato, il giovane con la giubba rossa è rivolto verso la donna senza, davvero, guardarla poiché, in realtà, egli par vedere qualcos’altro da cui trae un leggero, estatico, sorriso e che noi non vediamo, che non risulta affatto visibile ai nostri occhi terreni, ma percepibile soltanto a lui dentro l’immagine d’una veduta tanto irreale. Irrealtà che appar, cionondimeno, realissima o, vorremmo dir, “naturale”, nella misura esatta del panorama retrostante ai personaggi che stiamo considerando.

È sintesi figurativa di luce, di contrasto e di colore, resa evidente dall’improvviso abbaglio del fulmine in un presagio di nubi, sature di tempesta, sospeso nell’hic et nunc perenne di questa visione dipinta. Due mezze colonne su un piedistallo e un arco trionfale cieco alle spalle del giovane, entro un bosco lussureggiante con rigogliosa vegetazione, prevalentemente di querce e di lauro, che accoglie in sé lo spiazzo erboso dove ristanno le tre figure a tergo delle quali si slarga lo sfondo con un fiume verdeazzurro, attraversato da un semplice ponte di legno, che costeggia una città con case medievali, torri, chiese, edifici classici e cupole; in particolare, si vede un edificio che sembra una moschea, alte mura di stile orientaleggiante ed un volatile bianco su un tetto, una cicogna o un pellicano.

Tutto ritratto in prospettiva aerea, alla maniera di Leonardo, e tutto affidato ad una calibrata, straordinaria, orchestrazione delle campiture cromatiche basate su cromie verdi e dorate. I tocchi di giallo e di verde chiaro muovono le fronde, e la minuziosa tessitura del fogliame degli alberi, in contrasto con lo scenario scuro delle nubi, s’accende di intense vive vibrazioni, creando l’impressione del vento, mentre i contorni in lontananza sono poco caratterizzati ed hanno un’intonazione bluastra. 

Contro un arioso orizzonte di tale specie le proporzioni dei tre astanti in effigie paiono incongrue, così come la donna e l’uomo paiono, addirittura, poggiare su due piani prospettici differenti, divisi dal solco di un notturno corso d’acqua che diviene, in seguito, il largo e luminoso fiume contiguo alla città. Ciononostante affiorano, egualmente, segnali di sottili rimandi, di richiami e corrispondenze tra le figure e il paesaggio e delle figure fra loro come, la nivea bianchezza del corto drappo che ricopre molto parzialmente la nudità della donna e il variegato panneggio dei suoi indumenti, come la candida camicia ben in vista sotto l’aperto manto rosso del giovane e come le due mezze colonne bianche sopra il piedistallo bianco o come il volatile e il chiarore spettrale delle architetture.

Se in questo spazio di imminente tempesta il personaggio maschile sembrerebbe essere assente, estraneo, inconsapevole e svagato, quello femminile invece ricambia con un sguardo austero, enigmatico e ombroso, lo sguardo dello spettatore. E se intendesse così invitarlo ad una tacita sfida? la sfida a penetrare nello stesso spazio in cui ella si trova? nello spazio dell’opera d’arte fatto, infine, di pura apparenza ovvero di ciò in cui tutto quel che si dà presente si dà solo, ed in modo esclusivo, come eterno presente?

Il testo di Beniamino Vizzini "Ecfrasi. La Tempesta di Giorgione alle Gallerie dell'Accademia di Venezia" è stato pubblicato sulle pagine della rivista TRACCE CAHIERS D'ART, n. 24 - 2016

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