ALMA-TADEMA e i Pittori dell'800 Inglese. Collezione Pérez Simòn, Chiostro del Bramante, Roma


[2 Mar 2014 | 74412 visite di lettori


La mostra Alma-Tadema e i pittori dell’800 inglese. Collezione Pérez Simòn, in corso al Chiostro del Bramante, a Roma, fa riflettere su un presente di interminabile cesura dell’Italia da quella storia che era l'identità del nostro Paese ed era rispettata e amata in tutta Europa.
John William Godward, Bellezza classica, 1908, Olio su tela,51 x 40,9 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
John William Godward, Bellezza classica, 1908, Olio su tela,51 x 40,9 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes

Questo saggio è la prima parte di una recensione critica della mostra. La seconda uscirà nel prossimo articolo della rubrica Vita Estetica. La Collezione Pérez Simòn è stata documentata sulle pagine del 19° cahier di Tracce Cahiers d’Art, a cura di Marianna Montaruli e Beniamino Vizzini.
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Albert Moore, Il bagno, 1890, Pastello su carta, 37,7 x 14,8 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
Talvolta, può accadere che perfino delle mostre d’arte possano essere interpretate come segno dei tempi quale, ad esempio, questa che ora si svolge a Roma al Chiostro del Bramante, da 16 febbraio al 5 giugno 2014, con il titolo Alma-Tadema e i pittori dell’800 inglese. Collezione Pérez Simòn, a cura di Véronique Gerard-Powell. La mostra proseguirà, dal 23 giugno fino al 5 ottobre 2014, al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid ma è nata, signficativamente, al Musée Jacquemart-André di Parigi, sotto l’alto patronato dell’ambasciatore di Gran Bretagna a Parigi, dove si è tenuta fra settembre 2013 e gennaio 2014, con il titolo Désirs et Volupté à L’Époque Victorienne
La genesi d’una così importante esposizione internazionale – europea – d’arte, presenta tratti d’estremo interesse e, tanto più significativi, quanto più se ne approfondiscano certi aspetti riguardanti, da un lato, il fine per cui è stato concepito l’allestimento espositivo di circa una cinquantina di opere appartenenti ad una delle più grandi collezioni di pittura vittoriana in mani private, la Collezione Pérez Simòn, e dall’altro, il modo come sia variata la sensibilità verso determinati paradigmi, valori e principi nel quadro dei rapporti economici e socio-culturali interni al continente europeo.
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Lawrence Alma-Tadema, Confidenze sgradite, 1895, Olio su legno, 45,7 x 28,7 cm 70,5 x 54,8 x 11,3 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
Per quale motivo il Musée Jacquemart-André abbia voluto invitare il grande pubblico parigino a scoprire per la prima volta in Francia gli artisti celebri dell’Inghilterra della regina Vittoria nel XIX secolo – perché è stata la prima volta in assoluto che con tale evento Parigi abbia reso omaggio alla pittura vittoriana dell’800 – si spiega soltanto con il riconoscimento del dovere di pareggiare i conti o, di saldare un vecchio secolare debito, con una forma d’arte, di gusto e di cultura che il mondo avrebbe cancellato, rimosso, soppresso nel disprezzo e nell’oblio a causa del pregiudizio d’una visione rigidamente progressiva della storiografia artistica, determinatasi con l’affermazione del primato della modernità, a partire dall’impressionismo (e da Cézanne), in Francia dove Parigi è prescelta a diventare ben presto la capitale dell’arte europea, in quanto luogo in cui si forgia la fucina delle avanguardie. Filippo Tommaso Marinetti pubblica su Le Figaro nel 1909 il Manifesto del futurismo mentre è in ascesa il cubismo di Picasso e di Bracque. 
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Lawrence Alma-Tadema, Vano corteggiamento, 1900, Olio su tela, 76,6 x 41 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
Bruno Monnier, nel saggio di presentazione alla mostra al Jacquemart-André di Parigi, ha rilevato come Émile Zola, attento osservatore del Salon del 1874, abbia notato l’affollamento del pubblico, in particolare, intorno alle tele del signor Alma-Tadema “le cui stranezze archeologiche destano stupore e catturano la gente”. Monnier aggiunge: “Egli stesso (Émile Zola, ndr) sottolinea che le opere di questo artista olandese, recentemente naturalizzato britannico, sono da annoverarsi fra le più guardate del Salon e tuttavia non si sofferma, più di tanto, a considerare i motivi di tanta fascinazione da parte del pubblico. Il suo entusiasmo lo induce, piuttosto, a consacrarsi alla difesa d’una nuova generazione di artisti francesi che, in quello stesso anno, prende il nome di impressionista. La critica parigina si ritrova alle prese con una rivoluzione estetica così profonda che la creazione pittorica, che aveva sconvolto la Gran Bretagna già da parecchi decenni, non ha ormai più che una scarsissima eco sul continente”. 
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Albert Moore, Conchiglie, 1875, Olio su tela, 79 x 35,9 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
Con l’impressionismo e, soprattutto, con lo sviluppo successivo dell’arte radicale delle avanguardie, il “progresso” artistico dalla Francia si propagò al resto d’Europa in termini di movimento in avanti d’una ricerca estetica che avrebbe perseguito lo scopo non di seguire ma, addirittura, di precedere l’evoluzione degli stili di vita con cui prendeva forma il corso della modernità tecnico-industriale accogliendone, in pieno, i segnali di crisi come segnali – recepiti in senso positivo e rivoluzionario – di dissoluzione della società delle borghesie liberali che, progressivamente, e sempre di più tendeva a risolversi nelle forme totalitarie in Europa e, consumistico-democratiche negli Stati Uniti d’America, della società di massa. In altre parole, l’impressionismo dava inizio alla modernità nella storia dell’arte, ovverosia ad un’arte autenticamente moderna destinata a diventare, ben presto, prevalentemente antiborghese; peraltro, mentre il modernismo impressionista nasceva con l’allestimento della prima esposizione, presso lo studio del fotografo Nadar a Parigi, nel 1874, ottenendo scandalo e denigrazione del pubblico e della critica, la pittura degli artisti inglesi dell’età vittoriana riceveva i suoi ultimi suffragi proprio dal pubblico “tradizionalista” dei salons parigini prima d’esser gettata nella “spazzatura della storia” come arte reazionaria in quanto ancora perfettamente borghese e programmaticamente antimodernista. 
Al giorno d’oggi, che il ciclo delle rivoluzioni si è esaurito e, che la pregiudiziale “progressista” non funziona più, come una volta, quale chiave di narrazione della storia, ridiviene possibile tornare a valutare con approccio critico, dialettico e sereno, questo grande movimento d’arte che ha coinvolto quattro generazioni successive di giovani artisti nella lunga epoca delle regina Vittoria in Gran Bretagna.
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Dante Gabriel Rossetti, Venus Verticordia, 1867, Pastello su carta, 79,6 x 65,3 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
In principio di questo movimento artistico denominato Aesthetic Movement sta la fondazione della PRB (Pre-Raphaelite-Brotherhood) o, della Confraternita Preraffaelita nel 1848, ad opera di un italiano, Dante Gabriel Rossetti, nato a Londra il 12 maggio 1828, figlio di un poeta e critico letterario italiano, Gabriele Rossetti, originario di Vasto in provincia di Chieti, perseguitato politico e patriota rifugiatosi a Londra, per attività clandestina nella Carboneria, insieme ad Ugo Foscolo e a Giuseppe Mazzini, sposato con una benestante dama britannica Frances Polidori figlia, anche lei, d’uno scrittore ed editore italiano, Gaetano Polidori, originario di Bientina, attualmente in provincia di Pisa, e di Anna Maria Pierce, una governante inglese. Non bisogna stupirsi affatto se all’origine d’una straordinaria impresa artistica, dalla quale scaturiscono le sorgenti inesauribili di tutta la pittura britannica dell’età vittoriana, vi sia proprio il culto dello spirito proto-umanistico ed umanistico sorto, per la prima volta, con l’apparizione stessa in Europa della lingua, della letteratura e dell’arte italiane fra Trecento e Quattrocento, ricompreso nella consacrazione stessa del suo proprio nome, da parte del pittore e poeta italo-britannico, nato Gabriel Charles Dante Rossetti, al nome-simbolo del padre della letteratura e dell’identità italiana.
Non ci deve stupire perché, in effetti, durante tutto l’Ottocento l’Inghilterra nutrì per l’Italia una vera e propria passione; e l’Italia fu per l’Inghilterra non una semplice penisola del mediterraneo ma il riferimento a un modello esemplare di civiltà verso cui guardare per non smettere mai di educarsi al gusto, ai valori e alla bellezza del vivere. L’adorazione degli inglesi per l’arte, la letteratura e la storia italiana non era una novità, al punto che l’Italia era diventata sinonimo di cultura, quando nel XIX secolo ad alimentare, ancor più, questa fiamma nei confronti della nostra penisola, venne ad aggiungersi anche l’adesione alla causa nazionale italiana.
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Edwin Long, Vasti, 1878, Olio su tela, 214 x 167 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
La cultura romantica aveva poi chiuso il cerchio, trasformando l’Italia in uno spazio utopico-immaginario in cui gli inglesi potevano dar libero sfogo a emozioni e desideri, e le narrazioni letterarie e storiche della penisola diedero adito a una confusione tra invenzione romantica e rigore filologico che, in arte, scompaginò i confini tra la dittatura della fantasia ed il richiamo imperativo al realismo.
Nella Gran Bretagna dell’Ottocento, cioè nel cuore stesso della catastrofe di un mondo come quello agropastorale della tradizione, in cui la modernità avanzava al suono della marcia trionfale della seconda rivoluzione industriale e dell’imperialismo da lì a poco condannata, nel secolo successivo in Europa, a passare attraverso due guerre mondiali pur di distruggere gli ultimi residui ancora in vita del passato, sorgeva un imponente movimento di artisti, scultori e pittori, che orientavano la loro ricerca estetica verso il passato rivolgendosi ad esso proprio con l’iniziazione al culto dell’Italia. 
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Godward, La lontananza avvicina i cuori, 1912, Olio su tela,130,5 x 80 cm Messico, Collezione Pérez Simón © Studio Sebert Photographes
Il sogno italiano dei preraffaelliti inglesi fu, dunque, quello di ricostituire, nella purezza assoluta della sfera estetica, la mimesi visionaria di un mondo dell’anima che non sarebbe esistito da nessun’altra parte se non nel vagheggiamento struggente dell’Italia come la terra dove civiltà classica e medioevo, rivissuto attraverso il filtro umanistico della cultura italiana, avevano trovato il proprio luogo d’elezione. 
La mostra romana al Chiostro del Bramante sui pittori dell’Ottocento inglese ci costringe, fra le altre cose, a riflettere esattamente sul periodo attuale, oscuro e che sembra prolungarsi in un’interminabile cesura dell’Italia con tutta quanta la sua storia. Quella storia durante la quale l’Italia aveva saputo costruire un’identità (ancor prima e, forse, ancor di più dell’identità nazionale stessa) riconosciuta, rispettata e amata in tutta Europa. Soprattutto aveva saputo preservare le fonti medesime cui attingeva la vita spirituale della borghesia colta europea come ha dimostrato, in questo caso, la parabola descritta, presso le élites intellettuali della borghesia inglese in età vittoriana, del nuovo culto estetico ispirato alla continuità di un senso classico-medievale-umanistico della bellezza che era stata, per l’appunto, identificata con quella forma di civiltà ideale che fu chiamata Italia. 

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